Seminario: "Scritture mediterranee tra il IX
e il VII secolo a.C."
Milano 23 e 24 febbraio 1998
Tra sillabe e alfabeti. I "meccanismi" della
scrittura.
(Vermondo Brugnatelli)
Come introduzione ai lavori di questo convegno, il sottoscritto,
che, contrariamente ai colleghi che seguiranno, ha una competenza più
da linguista che da epigrafista, si limiterà a cercare di fornire argomenti
di riflessione su alcuni problemi generali che sono implicati nell'evoluzione
della scrittura, in particolar modo in relazione alla nascita dell' "alfabeto".
Premetto che quanto dirò è frutto di mie deduzioni e ipotesi
che, pur parendomi abbastanza verisimili, non costituiscono dati certi e inoppugnabili:
sono più spunti di direzioni di indagine che non affermazioni definitive.
Mi è sembrato utile esporli in questa sede, dato il carattere seminariale
dell'incontro, e ringrazio gli organizzatori, e in particolar modo Federica
Cordano, di avermi dato l'opportunità di farlo.
Nello studio e nella classificazione dei sistemi di scrittura,
noi linguisti tendiamo a concentrare la nostra attenzione sui "meccanismi"
delle scritture, sul modo in cui esse "funzionano" da un punto di vista "oggettivo",
razionale, escludendo ogni altra considerazione di ordine extra-linguistico.
Per cui, si considera se la scrittura è di tipo "ideografico" o "logografico",
oppure se è "fonetica", e in questo caso se è sillabica, consonantica
o alfabetica, ecc. Sulla base di queste categorie generali, si va poi a vedere
a quale di questi tipi appartiene la tale "scrittura", se e quanto è
aderente al modello "ideale", e anche nel tracciare la storia dell'evoluzione
della scrittura si fa largo spazio a questo genere di classificazione, per
osservare il "trapasso" da un tipo ad un altro, secondo trafile considerate
più o meno "naturali" o ineluttabili, fino allo sfociare nel sistema
"perfetto" (o quasi) dell' "Alfabeto".
Se questo modo di valutare le cose ha una sua indubbia
utilità per lo studioso che mira a classificare in modo razionale i
sistemi di scrittura, esso presenta però il limite di non prendere
in considerazione molti dati extra-linguistici che di fatto hanno una loro
influenza, e non da poco, nell'evoluzione dei sistemi. In particolare, un
dato extra-linguistico che a me pare di estrema importanza nel condizionare
l'uso e la possibile evoluzione dei sistemi di scrittura è quello delle
"scuole", delle modalità di conservazione e di trasmissione delle
tecniche scrittorie.
Conservatività; "lingue supporto"
Nelle epoche più antiche —ma il discorso può
valere, almeno in certi ambiti, anche ai nostri giorni— la scrittura è
una "tecnica" che viene tramandata all'interno di una casta di "addetti ai
lavori", che pongono un forte accento sulla loro funzione di custodi di questa
tradizione, di questo sapere tecnico.
Questo accento sulla tradizione porta ad una intrinseca
conservatività del sistema scrittorio, conservatività che risulta
nel modo più evidente quando tale sistema implica il riferimento ad
una lingua, che io proporrei di chiamare "lingua supporto" non più
parlata dalla popolazione che della scrittura fa uso. Sono molte e diverse
le situazioni in cui si è verificato qualcosa del genere, soprattutto
nel mondo antico. L'esempio che viene subito in mente è quello del
sumerico per tutti quei popoli che hanno impiegato la scrittura cuneiforme:
in pratica si imparavano i segni cuneiformi, ma insieme si imparava il sumerico
perche' era la lingua supporto del cuneiforme (questo vale soprattutto per
i più antichi utenti della scrittura, Eblaiti e Accadi). (1)
Infatti, almeno nelle prime fasi, la "tecnica scrittoria"
era proprio un'arte specialistica che veniva insegnata globalmente (e in maniera,
come si è detto, conservativa), il che poteva implicare un riferimento
(non necessariamente un "apprendimento" autonomo) a lingue magari non più
parlate ma che avevano impiegato in precedenza la scrittura.(2)
Non dico che tutti gli scribi cuneiformi imparassero il sumerico come si fa
di solito quando si impara una lingua, ma certamente dovevano conoscere molti
riferimenti al sumerico perché era necessario per poter padroneggiare
questa tecnica scrittoria. E' per questo che parlo di un riferimento, non
necessariamente di un apprendimento autonomo, a queste lingue. (3)
Non "scrivere" ma "scrivere una lingua"
La conseguenza più importante che discende da
queste considerazioni è, a mio avviso, la considerazione che, almeno
in epoche antiche, lo "scrivere" in sé, indipendentemente da una lingua
di riferimento non era probabilmente concepito. L'assenza di un concetto
"astratto" dello scrivere e l'esigenza di legare sempre comunque la scrittura
a un sistema linguistico (foss'anche il lessico di una lingua morta o straniera),
ricorda un po' quel modo di scrivere le grammatiche che ancora si poteva
trovare agli inizi del Novecento, procedimento che, per descrivere qualunque
lingua del mondo, partiva dalla grammatica latina, col risultato che anche
in lingue dell'Africa si cercavano il nominativo, l'accusativo, l'ablativo,
ecc. Chi operava in questo modo non aveva ancora preso coscienza della possibile
esistenza della "grammatica" come concetto in sé, e pensava che "la
grammatica" fosse in realtà "la grammatica del latino".
Trattandosi di un discorso di "evoluzione di tecniche",
mi sembra abbastanza interessante il parallelo con la matematica e la geometria,
che —soprattutto in epoche antiche— non andavano mai disgiunte da un'utilità
pratica. Di norma, le più antiche tavolette con operazioni matematiche
non contengono mai calcoli eseguiti su "numeri" astratti, ma sempre su unità
di misura: volumi di orzo, ecc. E questo anche quando l'operazione in sé
è astratta, di fatto slegata dalla necessità di effettuare un
calcolo su derrate esistenti: si vedano ad esempio le tavolette eblaitiche
di conversione tra numeri sessagesimali e decimali, che si presentano come
confronti tra quantitativi anche imponenti e probabilmente solo ipotetici
di cereali. (4)
Questa estrema conservatività della tecnica scrittoria
e del modo di tramandarla appare nel modo più evidente col cuneiforme,
che per lungo tempo ha previsto di fatto l'apprendimento del sumerico anche
presso i popoli più distanti nel tempo e nello spazio. Ma macroscopici
fenomeni di una "anacronistica" conservatività a causa del riferimento
ad altri sistemi linguistici dovevano essere presenti (almeno in qualche caso)
perfino in età "alfabetica". Mi sembra questo l'unico modo di spiegare
l'uso di "arameogrammi" nelle grafie di lingue medio-iraniche: così
i Parti scrivevano in "alfabeto aramaico" <MLK'> per "re" (che certamente
loro non avranno letto *malka all'aramaica, bensì, in iranico,
*shah o qualcosa del genere), allo stesso modo in cui gli scribi assiri
usavano il logogramma sumerico LUGAL (a sua volta formato dai due logogrammi
sumerici LÚ "uomo" + GAL "grande") che poi leggevano sharru,
quelli eblaiti usavano il logogramma EN e lo leggevano (verosimilmente) malik,
ecc. La sola differenza tra gli scribi assiri e quelli partici è che
questi ultimi scrivevano il loro logogramma attingendo a un numero limitato
di segni-base (le lettere dell'alfabeto), mentre gli assiri usavano i ben
più numerosi segni cuneiformi.(5)
Potenzialità
Di fatto gli scribi partici avrebbero potuto scrivere
qualunque parola della loro lingua in modo fonetico, con i segni alfabetici
(li usavano già in questo modo per precisare affissi morfologici o
per trascrivere nomi propri), ma non lo fecero. Perché? Qui vediamo
che la scrittura ha un "potenziale" che non viene sfruttato. Analogamente,
è stato spesso rilevato che gli antichi egiziani, avendo elaborato,
tra l'altro, una serie di segni cui viene ettribuito un valore fonetico monoconsonantico
("unilittero"), avrebbero in teoria potuto trascrivere qualunque parola della
loro lingua usando solo questa ventina di segni.(6)
Ma non lo fecero. La "potenzialità" esisteva, ma la conservatività
della scuola non lo permise.
Data questa tendenza alla conservatività delle
scuole, le maggiori accelerazioni nell'evoluzione si osservano quando la tecnica
viene trasmessa a popoli di lingua diversa, che spesso conservano la "lingua
supporto", ma almeno per i nomi propri devono fare i conti con problemi diversi
di trascrizione (e poi, beninteso, alla lunga tendono a rendere sempre più
"aderente" il sistema alla lingua d'uso, abbandonando o riducendo il ruolo
della "lingua supporto" estranea). Un esempio abbastanza chiaro è
quello della scrittura egizia di cui si è parlato prima: per
millenni essa è rimasta in uso, sempre presso un'unica area culturale
e linguistica, ed è rimasta più o meno sempre la stessa, con
ben poche evoluzioni a parte la forma esteriore dei segni. Ben diverso
il discorso quando la scrittura è stata addottata dai Semiti nel Sinai
e in Palestina: le iscrizioni paloesinaitiche e paleocananaiche sembrano
decisamente un'elaborazione del sistema grafico egiziano, ma molto differenziato
ed evoluto: un sistema che possiamo già definire alfabetico o consonantico.
Quello che mi preme sottolineare, in definitiva, è
che noi tendiamo a vedere l'aspetto tecnico "intrinseco" della scrittura,
il suo "funzionamento logico", che classifichiamo secondo categorie nostre
("ideografica"/"logografica", "fonetica", "sillabica", "alfabetica", ecc.)
In realtà il discorso è più globale e andrebbe sempre
considerato il quadro d'insieme cui la scrittura fa riferimento, quello
che conta nel formare l'idea che gli utenti hanno del proprio sistema grafico
e nell'indirizzare un'eventuale evoluzione. Noi elaboriamo categorie astratte
a posteriori, conoscendo già il punto di partenza e quello di arrivo,
mentre gli utenti, immersi nel processo, non percepiscono necessariamente
allo stesso modo queste nostre categorie; quindi anche un'evoluzione che per
noi è "lineare", in realtà procede piuttosto per "accidenti"
in certa misura "casuali".
Un'altra considerazione: noi diamo per scontato che l'alfabeto
sia un qualcosa a cui si giunge logicamente; noi conosciamo le unità
di seconda articolazione; conosciamo il fonema; sappiamo che esistono delle
unità foniche con valore distintivo e tendiamo ad identificare la lettera
dell'alfabeto con un suono distintivo, un'unità minima distintiva.
Ci sembra quindi abbastanza naturale e ovvio che, poiché tutte le lingue
"funzionano" con i fonemi tutte le lingue prima o poi capiscano l'utilità
di una scrittura che faccia coincidere in maniera biunivoca un grafema ad
ogni fonema.
Questa identificazione dei segni alfabetici con i fonemi
è però un'idealizzazione astratta. Nella realtà sono
estremamente rari i sistemi grafici al mondo che funzionino in questo modo.
Anzi, debbo dire che non conosco alcun sistema grafico corrente (non "scientifico")
che funzioni in modo così biunivoco un segno ≈ un fonema. Anche un
sistema come quello italiano, che pure tende molto verso questa biunivocità,
conosce digrammi (<ch>, <gn>, <gl>…), trigrammi (<gli>),
ridondanze (<cuV> e <quV>), ecc.(7)
Un'altra considerazione induce a ripensare questa pretesa
naturalezza dell'alfabeto: mentre non sono rare nel mondo scritture fonetiche
inventate indipendentemente l'una dall'altra su base sillabica, si dà
il caso che più o meno tutti gli alfabeti oggi esistenti risalgano
di fatto ad un unico progenitore, essendo in ultima analisi derivanti dal
sistema semitico nord occidentale, spesso attraverso l'alfabeto greco. E addirittura
non mancano esempi di grafie sillabiche originate direttamente o indirettamente
da sistemi alfabetici (o considerati tali), come le scritture etiopiche o
indiane che discendono da scritture semitiche rispettivamente meridionali
e occidentali. (8)
In realta' questa evoluzione non e' cosi' naturale come potrebbe sembrare.
Dalla sillabe all'alfabeto.
Per venire, dopo queste osservazioni preliminari, al
nocciolo del problema, vale a dire al "cammino" che porta alla nascita dell'
"alfabeto", osserviamo che per "giungere" ad esso si "passa" attraverso varie
fasi. Lasciando da parte il passaggio da una fase logografica ad una fonetica
(sillabica), che avvenne per gradi e non fu mai "completo", vediamo
quali passaggi conducono dalle sillabe ai segni alfabetici.(9)
Il sillabario che si avvia a diventare un alfabeto, ha
un'evoluzione che potremmo spiegare così: da una parte esso si
semplifica per via della diminuzione del numero dei segni, ma dall'altra parte,
almeno in una prima fase, questo "complica" la lettura dal momento che si
ha una minore univocita' delle corrispondenze fonetiche ai singoli segni.
E' questa complicazione che fa spesso parlare di "imperfezione" delle scritture
"prealfabetiche". In realtà, alla luce di quanto fin qui detto, è
evidente quanto sia poco pertinente il concetto di "perfezione". Gli
scribi sapevano quello che scrivevano e sapevano come leggerlo. Siamo noi
contemporanei che, non avendo frequentato le scuole scribali, abbiamo difficoltà
nel leggere e interpretare questi testi. La minore univocità di corrispondenze
fonetiche andava infatti controbilanciata dalla conoscenza della lingua,
o meglio del "sistema scrittorio" nel suo complesso.
Per esempio, nel caso degli arameogrammi nella scrittura
di lingue iraniche, lo studio della scrittura implicava un apprendimento di
un minor numero di segni-base, ma richiedeva sempre di conoscere il sistema
nel suo complesso, vale a dire anche tutto il lessico, a mo' di logogrammi.
Come già detto, ricordo che le "definizioni" che noi usiamo sono relative
ad una considerazione piuttosto "astratta" delle scritture. Personalmente
sono convinto che anche i Micenei che scrivevano in lineare B (che qualunque
epigrafista classificherebbe senza esitazione tra le scritture fonetiche-sillabiche)
non fossero esenti da una concezione logografica analoga. A parte l'ampio
uso di abbreviazioni, sigle e veri logogrammi (che se vogliamo non mancano
anche nella nostra scrittura: n°/ #; &, ecc.), mi sembra che esistano
indizi anche per un uso "logografico" di "parole" scritte con il numero relativamente
ristretto di sillabogrammi: alludo in particolare a quei casi, studiati da
M. Negri, di sintagmi di tipo pa-ro + apparente nominativo, con una
sintassi a prima vista aberrante, ma che tale non è se si pensa che
il nome che seguiva pa-ro veniva considerato alla stregua di un "logogramma".(10)
Il primo tipo di semplificazione si ha col passaggio
da un sillabario con sillabe di ogni tipo (come in accadico) ad uno che preveda
solo sillabe aperte.(11) Per la verità
il solo tipo di scrittura del Vicino Oriente di cui si conosca con sicurezza
il carattere a sillabe aperte è la lineare B. Ma molto verosimilmente
questo tipo di scrittura fonetica era già presente nella lineare A.(12)
Infatti, anche se non conosciamo la lingua trascritta con la lineare A, possiamo
provare a leggerla" (almeno parzialmente),(13)
e in alcuni casi si osservano variazioni che lasciano supporre tentativi
di rendere gruppi consonantici mediante grafie "difettive" oppure segni con
vocale "inerente". Un esempio abbastanza evidente: u-na-ru-ka-na-ti
(PK Za 11c4) / u-na-ru-ka-na-ja-si (PK Za 12 c4) / u-na-ka-na-si
(KO Za 1c4; PK Za 8b4; SY Za 2b5; TL Za 1b4). Una simile serie di alternanze
potrebbe far pensare a qualcosa che foneticamente si avvicinava a *unalkanayti
/unalkanaysi, reso attraverso una scrittura "a sillabe aperte". (14)
Come "funziona" una scrittura "a sillabe aperte"? Prendiamo
ad esempio la parola micenea a-to-ro-qo, che noi trascriviamo, per
comodità filologica, con una serie di sillabe aperte, ma che ovviamente
doveva venir letta, più o meno, ánqro:qos : in questa
parola il segno trascritto <a> sta per an (valore: (C)Vn), <to>
sta per q (valore: C), <qo> sta per qos (valore: CVs).
Solo il segno <ro> rende effettivamente la sillaba aperta ro
(CV). Dunque in un sistema "a sillabe aperte" come la lineare B (e verosimilmente
la A), ogni segno sillabico può rendere non solo una sillaba CV (valore
"base" delle trascrizioni moderne), ma anche solo C, oppure CVs, CVn, CVj,
ecc. Un sistema "impreciso" da un punto di vista strettamente "fonetico",
ma già più efficiente rispetto al complicato sillabario cuneiforme
accadico, in quanto, se al pari di quest'ultimo richiedeva pur sempre l'
apprendimento dei numerosissimi "logogrammi" del lessico, perlomeno prevedeva
una drastica riduzione del numero dei segni-base da memorizzare.
In questa stessa logica, l' "alfabeto semitico" non è
che un'ulteriore tappa nel processo di riduzione dei segni-base con corrispondente
aumento dell' "imprecisione" fonetica per via del valore indeterminato del
vocalismo di ogni "sillaba".(15)
Personalmente, sono convinto che, per tutti questi motivi, l' "alfabeto"
semitico fosse (e sia) intrinsecamente ancora più "sillabico" che
"alfabetico". Il fatto che noi siamo soliti trascrivere i suoi segni con
una sola consonante ciascuno non implica necessariamente che esso fosse un
vero e proprio alfabeto". (16)
Ma in fin dei conti la questione se si tratti ancora di una scrittura "sillabica"
o già "alfabetica" è superflua. Non esiste un passaggio discreto
da un "non-alfabeto" a un "alfabeto", ma solo un continuum che va da una
minima a una massima "alfabeticità", per cui potremmo dire che il
sistema grafico semitico è "percentualmente" assai più alfabetico,
p.es., della scrittura egizia, ma un po' meno dell'alfabeto greco. D'altra
parte, lo stesso sistema grafico greco, almeno nelle prime fasi, doveva ancora
essere considerato, almeno in certa misura, "intrinsecamente" sillabico,
come si intuisce da diversi indizi, tra cui la "puntuazione" di altri alfabeti
arcaici (di probabile derivazione greca), puntuazione che, avendo lo scopo
di distinguere le sillabe di tipo CV dalle semplici consonanti non seguite
da vocale, si spiega solo mediante una concezione "sillabica" della scrittura.(17)
Tutto sommato, decisivo nel passaggio ad un alfabeto tendenzialmente fonematico
sarà lo sviluppo del meccanismo delle matres lectionis, cioè
la precisazione del timbro vocalico mediante l'uso di particolari segni consonantici
(un'ulteriore "potenzialità" alfabetica, sfruttata solo marginalmente
nelle grafie semitiche). Questo meccanismo era già sorto in ambito
semitico, e venne poi accolto in pieno dai Greci (per un certo tempo il segno
<H> venne impiegato col duplice valore di h e di vocale di timbro
e). L'uso estensivo che il greco fece delle matres lectionis,
e il loro specializzarsi nella sola resa delle vocali, è in fondo anch'esso
dovuto ad una felice combinazione: a differenza del semitico, il greco non
possedeva la ricca serie di suoni faringali e laringali, ai quali corrispondevano
lettere impiegate come matres lectionis. Ma anche in questo caso, più
che parlare di un "primato" greco dell'alfabeto stricto sensu, sarebbe più
corretto dire che la scrittura greca è "percentualmente" ancora più
alfabetica di quella semitica. Come spesso avviene, un "passo in avanti",
in questo caso l'uso regolare di un espediente grafico già noto, sorge
al momento del trapasso della scrittura a popolazioni di lingua diversa.
Se per la loro struttura linguistica le lingue semitiche si potevano "accontentare"
(e di fatto ancor oggi si accontentano) di una scrittura sostanzialmente
consonantica, per una lingua indeuropea in cui il valore semantico delle
parole è affidato anche alle vocali, è importante che anche
queste ultime siano chiaramente espresse nella scrittura.(18)
NOTE:
(1)
Se questo è un esempio che viene subito in mente a studiosi di lingue
antiche, non dimentichiamo che si potrebbero benissimo comprendere anche situazioni
moderne: per esempio il Nord Africa attuale, dove chi vuole imparare a scrivere
deve imparare insieme all'alfabeto, una lingua diversa dalla sua lingua madre.
E quindi imparare o l'arabo letterario se vuole scrivere con l'alfabeto arabo
o il francese se si vuole imparare l'alfabeto latino, perché le lingue
parlate, berbero o dialetti arabo-maghrebini, non sono generalemente scritte
(o quantomeno non vengono riconosciute a livello ufficiale in quanto lingue
scritte).
(2)
Come detto, quello della conservazione di "lingue di supporto" è un
caso-limite di questa tendenza alla conservatività. Ma questa tendenza
è sempre presente, anche ai giorni nostri, in riferimento a tanti aspetti
del sistema di scrittura: anor oggi <cuore> si scrive con <c->
come <cor> latino, mentre <quando> continua una <q-> già
latina. Le "grafie storiche" che oggi complicano l'apprendimento della scrittura
(soprattutto, p.es., nell'ambito della lingua inglese) erano un tempo la regola
e non l'eccezione, e non rappresentavano in sé un ostacolo insormontabile,
ma facevano parte delle abilità da acquisire nell'ambito di questa
tecnica.
(3)
In certi casi, come nel caso dell'iscrizione di Bisutun, sembra addirittura
di scorgere una diversa "lingua di supporto" con relativo diverso "sistema
grafico" a seconda del materiale su cui è scritto il testo: cuneiforme
per il testo monumentale, aramaico per quello su papiro o pergamena... Probabilmente
a quell'epoca uno stesso scriba era in grado, quando scriveva su una tavoletta
di scrivere in accadico (o in altra lingua legata alla scrittura cuneiforme)
e quando scriveva su un papiro, di scrivere in aramaico con il suo alfabeto.
(4)
Su questi testi, cf. V. Brugnatelli, "Osservazioni su alcuni testi matematici
di Ebla", AIΩN 17 (1995) [ma: 1998], pp. 67-74. Molto rischioso è
avanzare ipotesi —come viene fatto da J. Renger in Ebla 1975-1985,
pp. 299 ss.— sull'estensione territoriale di Ebla sulla base delle quantità
di derrate rilevate in testi matematici, perché è evidente
che tali derrate sono del tutto ipotetiche, e figurano nelle tavolette solo
per la mancanza di un modo di rappresentare numeri astratti.
(5)
Al giorno d'oggi noi capiamo quando un'iscrizione è iranica o per fatti
sintattico (p.es. un costrutto indeuropeo "dei re - il re" vs. sem.
"il re - dei re") o per qualche elemento fonetico che in aramaico non avrebbe
senso (complementi fonetici o qualche termine partico), pero' capita a volte
che di qualche (breve) iscrizione gli studiosi non siano in grado di stabilire
con certezza se siano in aramaico o in partico. Per un'iscrizione inizialmente
ritenuta in aramaico, v. F.A. Pennacchietti, "La bilingue greco-partica sull'Eracle
da Seleucia (Iraq)", ASGM 27 (1986), Milano 1987, 26-30.
(6)
Come sintetizza A. Roccati (Elementi di lingua egizia, Milano, Unicopli,
1982, p. 6) "Questi segni non costituiscono un alfabeto, benché ne
siano le premesse".
(7)
Si sente spesso indicare nell'alfabeto greco un prototipo di questa "fonematicità"
della scrittura, e tuttavia anche qui esistono lettere bifonematiche (ksi,
psi), diversi fonemi vocalici brevi non vengono tenuti distinti da
quelli lunghi, ecc.…
(8)
Queste evoluzioni parallele, originate entrambe dalla necessità di
"scrivere" le vocali, sono un'ulteriore conferma della natura per certi versi
ancora "intrinsecamente" sillabica dell' "alfabeto" semitico.
(9)
Mentre in questo intervento mi limito ad osservazioni "teoriche" sulla nascita
dell'alfabeto, per maggiori dettagli storici rimando al mio capitolo "Gli
alfabeti semitici del II millennio", in corso di stampa in: M. Negri (a cura
di) Homo scribens, Verona.
(10)
Cf. Mario Negri, "Ancora sul mic. «PA.RO»", in Contributi di
orientalistica, glottologia e dialettologia ("Quaderni di ACME"
7), Milano 1986: 101-111, in partic. p. 110: "le difficoltà connesse
con la reggenza di pa.ro … discendono in qualche modo dall'errore di
prospettiva di aver affrontato il problema dal punto di vista di una lingua
flessiva, com'è il greco … non ricordando però che la Lineare
B … è un codice grafico essenzialmente non flessivo, nel senso che
le determinazioni funzionali sono qui solo in misura minima affidabili alle
terminazioni che, in un numero non infimo di casi, di fatto non risultano".
Un uso esteso di grafie apparentemente fonetiche utilizzate come logogrammi
è attestato a Ebla, dove p. es., il termine per "re" era sempre scritto
col logogramma EN, e anche quello per la "regina", ma-lik-tum, benché
composto da elementi leggibili sillabicamente, era di norma usato logograficamente
senza segni di flessione casuale (es. shi-in ma-lik-tum "alla regina",
dingir a-mu ma-lik-tum "il dio del padre della regina", ecc.).
(11)
Una tendenza del genere sembra in atto già a Ebla, in cui non sono
rari i casi di mancata scrittura di una consonante finale di sillaba (p. es.
-l) o di sostituzione di una sillaba chiusa con due segni di tipo CV
(il secondo con la consonante finale della sillaba + una vocale "pleonastica":
"Ferner können v- und Kv-Werte /(K)vK/ repräsentieren, … während
umgekehrt (K)v-(K)v sehr oft für /KvK/ geschrieben wird. Nur durch die
Beachtung von Schreibvarianten und aufgrund etymologischer sowie morphologischer
Kriterien lassen sich einigermaßen sichere Schlüsse von der Schrift-
auf die Sprachebene ziehen" (M. Krebernik, "Zu Syllabar und Orthographie der
lexikalischen Texte aus Ebla. Teil I", ZA 72.2 (1982): 178-236, in
partic. 222 e ss.).
(12)
E' senz'altro possibile che un tipo di scrittura "a sillabe aperte" fosse
in uso anche in altri sistemi antichi a noi sconosciuti o perché andati
perduti o perché non ancora decifrati. Personalmente ritengo assai
probabile che la scrittura "pseudo-geroglifica" di Biblo rientrasse in questa
tipologia, vuoi per il numero dei segni (ne sono fin qui stati individuati
114) vuoi per il fatto che diversi di essi sembrano costituiti da un elemento
"fisso" con diverse modificazioni, il che assomiglia al tipico procedimento
di scritture sillabiche come quella amarica o quella devanagarica per trascrivere
sillabe con uguale consonante e diverso vocalismo.
(13)
Per la problematica della lettura della lineare A, cf. da ultimo C. Consani,
M. Negri et al., Testi minoici trascritti con interpretazione e
glossario, 1999 ("S.M.E.A." 100).
(14)
A parte interessanti variazioni di altro tipo (p. es. l'alternanza t/s),
sembra di poter ricostruire una liquida anteconsonantica resa una volta con
la sillaba corrispondente con vocale u (soluzione che troviamo attestata a
Ebla in tanti casi in cui -mu rende la sola mimazione ma anche, al
giorno d'oggi, nella scrittura giapponese), una volta con Ø
(soluzione frequente a Ebla per l ma non per r: per questo
solo motivo ho qui ipotizzato una laterale invece di una vibrante, non tenute
distinte nella stessa lineare B); e analogamente un dittongo ai reso ora
senza indicare la -j, ora con j + la vocale della sillaba precedente
(entrambe le soluzioni sono assai diffuse a Ebla).
(15)
Un fortunato accidente della storia, per cui nelle lingue semitiche le sole
consonanti identificano il nucleo semantico delle parole ha fatto poi sì
che, nonostante a prima vista questo sistema grafico sia foneticamente più
"impreciso", per i parlanti doveva essere molto più facilmente interpretabile
di quanto lo fosse la lineare B per i Micenei.
(16)
D'altra parte, l' "alfabeto" ugaritico contiene ancora tre segni, 'a,
'i, 'u, di valore "sillabico" CV con vocalismo determinato.
(17)
Su questo argomento, per brevità, rimando alle considerazioni che ho
svolto in "Tifinagh e alfabeto etrusco-venetico. A proposito della concezione
alfabetica della scrittura", in P. Filigheddu (a cura di) Circolazioni
culturali nel Mediterraneo antico (Sassari 24-27.4.1991), Cagliari: Corda
1994, 47-53 (in partic. 50-1).
(18)
Non è escluso che già prima dei Greci un altro popolo, adottando
la scrittura alfabetica semitica, abbia cominciato ad adoperare regolarmente
le matres lectionis per rendere con chiarezza le vocali. Alludo all'antichissimo
e per molti versi ancora misterioso ostrakon di ‘Izbet Sertah (XIII sec.?),
in lingua sconosciuta (filisteo?) e caratterizzato da una tale frequenza di
faringali e laringali da far pensare ad un uso dei segni corrispondenti per
esprimere le vocali (ipotesi da me avanzata nel 1991 in "Tifinagh e alfabeto
etrusco-venetico…" cit., p. 51-52 e ripresa poi da G. Garbini in
I Filistei, Milano 1997, pp. 235-8, in partic. p.237).