Il villaggio dei vasai

Il sole è calato, la giornata è finita. Incontro Younes mentre chiude il laboratorio per recarsi alla vicina moschea,  e gli chiedo com'è andata la giornata. Il giorno precedente sono stato con lui tutto il pomeriggio durante il quale ha venduto due vasetti da 2 dinari l'uno ai due soli turisti che si siano fermati da lui. Scopro che oggi è andata peggio: non si è visto nessuno. Con ammirevole filosofia, mi spiega: «Come i pescatori che gettano la rete: ogni tanto qualcosa finisce dentro, ogni tanto la rete torna vuota».
La stagione turistica è agli sgoccioli e non c'è da stupirsi. La grama vita del vasaio nel villaggio berbero di Guellala, nell'isola di Djerba, non è fatta per arricchire. È un'economia al limite della sopravvivenza: tanto lavoro e ricavi che a malapena consentono di tirare avanti. Ma tranquilli con la propria coscienza e con grande dignità. Siamo nel cuore del mondo berbero ibadita: qui l'islam, a differenza che in altri luoghi, vuol dire innanzitutto rimboccarsi le maniche e darci dentro col lavoro.
Gli Arabi, che assediano ormai da ogni parte questo piccolo mondo ricco di storia, non lo conoscono e lo disprezzano. I Berberi servono come richiamo per i turisti, ma sono percepiti con fastidio. Parlano una lingua che non si capisce e che nessuno vuole capire. E senza capirli, senza conoscerli, gli Arabi credono che essi tramino sempre chissà che cosa alle loro spalle. Conosco questo atteggiamento: quante volte in Alto Adige ho sentito turisti italiani con la paranoia che i Tirolesi, esprimendosi in quell'astrusa lingua, li prendessero in giro...
Ho passato ormai parecchio tempo insieme ai Berberi di Jerba. Ho imparato un po' della loro lingua, e posso dire di conoscere bene tanti di loro: perlopiù "stâ", maestri artigiani come il paziente Younes,  i vecchi Bouich e Slimane,  o i giovani Adel e Djamel, ma anche negozianti, come il pio e saggio Joumaa, o funzionari, come Abderrazzak, il capo del villaggio. 
Checché ne dicano le leggende metropolitane che li circondano, i Berberi di Tunisia sono le persone più pacifiche di questo mondo. Se amano ogni tanto sfottere gli ibiyathen (Arabi) che non parlano jerbi, lo fanno bonariamente, senza troppa malizia. Raramente ho visto musulmani tanto osservanti, ma anche tanto tolleranti. All'ora della preghiera scompaiono tutti per andare in moschea, ma quando c'è un ospite, questo passa davanti: «l'ha detto anche il nostro Profeta: non c'è problema, la preghiera possiamo sempre recuperarla più tardi». Abituato allo spettacolo di zelo farisaico di tanti musulmani "nostrani", attaccati alle forme più che alla sostanza, qui respiro proprio un'altra aria. E in effetti, chiacchierando con loro, ogni tanto capita di parlare anche di religione, e posso constatare quanto profonda sia la loro fede, vissuta con la serenità di chi sente la religione come un dono che Dio ha messo a disposizione degli uomini per renderli migliori, non come uno strumento di battaglia. di affermazione o di rivalsa. In fondo, «Rebbi d ijjen!» («Dio è uno»), ed è quasi secondario che lo si adori secondo l'islam, il cristianesimo o l'ebraismo.
Quando i turisti si fermano nei negozi di Guellala, si fanno abbagliare dalle ceramiche policrome (importate da Nabeul: quelle di qui non sono smaltate), dalla bravura dell'artigiano che fa una dimostrazione dal vivo di come si plasma un vaso, dall'aspetto esotico di questi Berberi, che l'industria del turismo garantisce veramente  selvaggi.  Non sanno che questo fragile mondo, questa fragile economia sono minacciati. I laboratori dei vasai diminuiscono ogni anno, un qualunque negozietto al bordo della strada è enormemente più redditizio, e sono sempre meno i giovani che se la sentano di continuare questa vita. Lo stesso Younes, pur nella sua serena pazienza, non riesce a nascondere qualche inquietudine: il fratello maggiore, che è il proprietario del laboratorio di famiglia, da Parigi ha disposto che entro un anno la vecchia struttura ad archi di marmo ereditata da innumerevoli generazioni dovrà far posto ad una nuova boutique. Probabilmente l'anno prossimo non lo troverò più al suo vecchio posto di lavoro: forse non lo troverò più neppure a Guellala: senza i mezzi per continuare,  medita di andare all'estero, pronto a fare qualunque mestiere.
E io cosa ci faccio qui? È un ruolo scomodo, il mio: la mia missione di studio della lingua berbera - anch'essa in lento ma inesorabile regresso- mi costringe nel ruolo poco invidiabile di spettatore, consapevole ma impotente, della lenta sparizione di un patrimonio umano e storico che ha superato i secoli e i millenni, ha resistito ai Romani, ai Turchi ed ai Francesi, alle carestie ed alle epidemie, ma si deve ora arrendere alle leggi inesorabili del mondo contemporaneo.
E che rabbia quando sento magnificare ad uso dei turisti i Berberi, popolo "fiero ed indomito", da parte di quegli stessi che non muovono un dito per preservarne l'esistenza...

Guellala, 10 ottobre 2004